
A Hollywood, nel 1926, nel corso di un party scatenato si incontrano l’aspirante attrice Nellie e il messicano Manny, che lavora come aiutante presso la casa di produzione Keystone. Dopo la morte per overdose di un’attrice, Nellie, bellissima e senza freni, ha finalmente l’occasione di sfondare, mentre Manny, che fin da subito s’innamora di Nellie e la protegge dal suo stesso stile di vita forsennato, diventa amico della star in declino Jack Corran. Il passaggio dal muto al sonoro stravolgerà la città del cinema: incapace di adattarsi al sonoro e travolta dalla relazione con la cantante Lady Fay Zhu, Nellie si perde in una spirale d’autodistruzione, mentre Jack vede progressivamente sparire il suo nome dai cartelloni. Il solo Manny sembra farcela, scalando i vertici del sistema, ma anche lui finirà per essere travolto dal destino della nuova Babilonia…
Chazelle racconta le origini del cinema hollywoodiano con un progetto faraonico, che ha l’ambizione e le dimensioni di un film del periodo classico.
La storia dei primi anni di Hollywood, tra documentazione, semplificazioni e mitologia, viene sostanzialmente suddivisa in tre fasi: le origini avventurose, con la nascita di miriadi di improvvisate e scalcagnate case di produzione (le ha raccontate Bogdanovich in Vecchia America, che finiva con l’uscita di Nascita di una nazione di Griffith nel 1914); l’esplosione del cinema come pozzo senza fondo di visioni, sogni, fantasie, ma anche guadagni ed eccessi (una fase ampiamente raccontata da Kenneth Anger in Hollywood Babilonia e rappresentata dagli eccessi di un genio incontrollato come Erich Von Stroheim); il passaggio dal muto al sonoro tra la fine degli anni 20 e l’inizio dei 30, con il consolidarsi dello Studio System e la moralizzazione di temi e atteggiamenti a instradare l’industria del cinema verso una maggiore accettazione sociale.
Difficile uscire da una tale cornice storiografica, provando magari a dare un quadro più complesso del modo in cui nel giro di venti anni il cinema divenne il fenomeno di massa più sconvolgente e redditizio nella storia dell’umanità, soprattutto se l’intenzione, come nel caso del nuovo film di Damien Chazelle, è riprendere fin dal titolo l’idea di Hollywood come terra di piacere, deliri e stravaganze e raccontare l’assolata città del cinema con un racconto corale adrenalinico e caotico.
Classe 1985, innamorato del jazz, cinematograficamente figlio del New American Cinema, della New Hollywood e del cinema classico (come sembra di intuire guardando la sua filmografia da Guy and Madeline on a Park Bench in poi), Chazelle per Babylon aveva in mente diversi modelli: Kenneth Anger, ovviamente, ma anche il Nathanael West di Il giorno della locusta, dei quali vorrebbe recuperare il tono cinico e quasi apocalittico; Cantando sotto la pioggia, citato nel finale e fantasma che aleggia lungo tutto il racconto (ma il tono non è quello di The Artist); New York New York, esempio di ripresa e stravolgimento dello stile classico attraverso il colore e la violenza espressiva del montaggio e dei movimenti di macchina (ma Scorsese non dimenticava le sue figure, era modernista e umanista, mentre Chazelle non va mai oltre la sua superficie scintillante e kitsch); le coreografie di Bob Fosse, evidenti nei rimandi a Cabaret della figura dell’artista lesbica Lady Fay Zhu (Li Jun Li) e in generale nella rappresentazione di un mondo dello spettacolo così folle da mostrare il suo lato più putrido e putrescente.